La fibrillazioni sui mercati globali sono dovuti principalmente a tre fattori, due attuali e uno che si trascina dal 2020: inflazione, guerra russo-ucraina e pandemia.
Il 2022 è stato particolarmente difficile per i mercati finanziari. Alla fine del 1° semestre, su base annualizzata, i mercati azionari statunitensi sembrano avviati verso il loro anno peggiore dal 1872, mentre quelli obbligazionari non facevano così male dal 1865. Il rally estivo ha in parte contenuto i danni, tuttavia non ha scacciato le incertezze sui mercati globali né i dubbi su come posizionare i portafogli di investimento.
A nostro giudizio, l’impennata inflazionistica e la necessità da parte dei Paesi di garantire la tenuta delle catene di distribuzione di alimentari ed energia stanno confermando una fase di cambiamento strutturale che spinge i governi a dare priorità al ritorno al lavoro rispetto al rendimento del capitale. Si tratta di un cambiamento decisivo e probabilmente irreversibile nell’ortodossia politica che ha prevalso negli ultimi 40 anni. Stiamo assistendo a una rivoluzione politica ed economica, e le tendenze che iniziano a manifestarsi ora perdureranno nel resto del decennio.
Ci aspettavamo una risalita dell’inflazione dopo la pandemia, ma la portata degli aumenti di quest’anno sono stati straordinari. A nostro parere, l’inflazione non resterà così alta, ma non scenderà neppure sui livelli persistentemente bassi a cui eravamo abituati prima della pandemia. La sfida per le banche centrali sarà, verosimilmente, quella di garantire che l’inflazione resti intorno al target, anziché attestarsi molto al di sotto di tale livello come negli ultimi dieci anni. Ciò ha evidenti implicazioni per l’andamento delle asset class. Gli interventi delle banche centrali a salvataggio dei mercati finanziari con l’immissione di sempre maggiore liquidità hanno senso solamente in un contesto deflazionistico.
L’inflazione è stata aggravata dalla guerra in Ucraina che ha messo fortemente a rischio le forniture mondiali di alimentari ed energia. Le riflessioni iniziali sul passaggio dall’efficienza alla resilienza riguardavano inizialmente una minore esposizione alla catena di distribuzione globale per via dell’aggravarsi del rischio geopolitico. È evidente che ora l’attenzione si è spostata sulla necessità dei governi di sfamare e riscaldare la popolazione, una necessità basilare per una società capace di recuperare.
Il peggio probabilmente deve ancora avvenire. La carenza di cereali su scala globale potrebbe raggiungere 40 milioni di tonnellate nel 2023, il che equivale al 10% delle forniture globali. La risposta dei governi alla scarsità delle risorse di base, a nostro giudizio, sarà esattamente la stessa che abbiamo visto coi vaccini: faranno scorta. Verosimilmente si intensificherà la concorrenza per avere accesso alle risorse di base per crescere. La concorrenza per l’accesso ad alimentari, energia e risorse sarà un terreno di scontro a livello geopolitico nei prossimi dieci anni.
La tesi centrale di questo cambiamento epocale è che gli incentivi politici sono mutati radicalmente. Per 40 anni, la globalizzazione è stata considerata praticamente inevitabile. La direzione della politica monetaria e fiscale è stata decisa per sostenere apertura, bassa inflazione, rigore fiscale e per prioritizzare il rendimento del capitale.
Con l’impennata dell’inflazione nel 2022, certamente si vuole evitare il sacrificio. Le banche centrali sono intervenute con lentezza ed esitazione contro la minaccia inflazionistica. Aspetto ancor più importante, i governi non sembrano intenzionati ad andare contro corrente. Nei Paesi sviluppati, l’attenzione resta concentrata sugli aiuti ai lavoratori interni e sulla capacità di recupero nazionale più che sulla preoccupazione dei costi da sostenere. La mentalità diffusasi durante la pandemia con il CARES Act negli Stati Uniti e le forme di cassa integrazione in Europa continua a prevalere.
Dall’inizio della pandemia negli Stati Uniti sono aumentati molto gli interventi del governo. Il fenomeno è iniziato con la distribuzione diretta di assegni governativi a tutti i contribuenti con il CARES Act, approvato durante l’amministrazione repubblicana. L’amministrazione Biden è stata persino più attiva come si è visto dalla molteplicità di interventi introdotti dalla “Bidenomics”.
Queste proposte di legge sono il tentativo di creare una politica industriale per sostenere la produzione, la ricerca e lo sviluppo nel campo dei semiconduttori, lo sviluppo di batterie e la catena di distribuzione delle terre rare. Non vogliamo entrare nel dibattito sulla loro efficacia, ma sottolineiamo che rappresentano una svolta rispetto alla tendenza alla globalizzazione, che aveva consentito lo spostamento del 90% della produzione di semiconduttori globale nella sola Taiwan. Oggi si intende invece creare posti di lavoro internamente per alimentare la capacità di resistenza nazionale, con l’aiuto del governo.
Vale la pena di considerare che queste leggi comportano la necessità di fare maggiori investimenti fissi per incrementare la capacità produttiva fisica dei Paesi sviluppati. Questo elemento è stato trascurato nell’era della globalizzazione. La capacità fisica è stata trasferita in buona parte nei Paesi in via di sviluppo, mentre l’Occidente ha puntato sulla tecnologia. Oggi la tendenza potrebbe cambiare, con implicazioni sui rendimenti obbligazionari. Inoltre, tutte le problematiche che abbiamo sollevato ci portano a concludere che oggi, sia nel lavoro che nelle risorse, l’offerta è limitata. È uno scenario completamente diverso da quello post-2008, quando a preoccupare era la carenza di domanda locale.
Dobbiamo precisare che questo mondo non è peggiore del precedente, è solo diverso. Probabilmente torneremo a uno scenario di investimento più normale, mentre il periodo precedente caratterizzato da bassi rendimenti, bassa volatilità e da flussi di capitale senza limiti, col senno di poi, verrà visto come un’eccezione.
A cura di David Dowsett, Global Head of Investments di GAM Investments