C’è attualmente molto scetticismo nei confronti delle banche centrali e della loro capacità di influenzare la crescita globale
Un numero crescente di osservatori è convinto che i tagli dei tassi non siano più efficaci e che le Banche Centrali siano diventate impotenti. Non sono d’accordo con questa visione.
Per quale ragione? Innanzitutto, è fondamentale analizzare il contesto. Per oltre un decennio la crescita globale è stata ostacolata da varie forme di deleveraging – vale a dire, una riduzione del ritmo di crescita del credito a un livello in linea con quello del Pil nominale, non una riduzione del livello complessivo di indebitamento. Il deleveraging ha avuto luogo in quattro ‘ondate’, che hanno posto freni significativi all’economia mondiale ultimi undici anni: la crisi finanziaria globale, la crisi dell’Eurozona, il taper tantrum – che ha colpito principalmente i Paesi Emergenti, ad esclusione della Cina – e l’attuale sforzo cinese di riduzione dell’indebitamento. Ad oggi, non c’è stato alcun ri-indebitamento dell’economia reale abbastanza sostanzioso da controbilanciare questa situazione.
Inoltre, negli ultimi anni l’economia globale ha dovuto affrontare una serie di shock che hanno generato incertezza. Brexit, l’ascesa del populismo e le guerre commerciali sono tutti eventi che hanno reso più difficile per consumatori e imprese fare previsioni affidabili sul futuro, con la conseguenza di una riduzione del capex.
A fronte di fattori così sfavorevoli non dovrebbe sorprendere che i tagli dei tassi attuati dalle banche centrali abbiano avuto un impatto minore sulla crescita rispetto a quanto ci si sarebbe potuti aspettare. Ciò quindi non significa che i tagli siano diventati intrinsecamente meno efficaci; piuttosto, tali misure appaiono meno incisive rispetto al passato per via del contesto nel quale intervengono.
Sono dunque convinto che i tagli dei tassi possano ancora avere un impatto reale e che l’attuale fase di allentamento delle politiche monetarie possa offrire un sostegno molto più efficace di quanto non ritengano i più scettici. A patto che non si verifichino altri shock in grado di alimentare le incertezze, la crescita pare vicina ad un punto di flesso, in cui le condizioni finanziarie più espansive inizieranno ad avere effetto innescando un aumento delle spese in beni durevoli e del capex. Ciò dovrebbe tenere a bada la recessione ancora per un po’ – potenzialmente anche per altri tre anni.
Prima o poi la recessione arriverà, ma non sarà severa come nel 2008 e sarà probabilmente più debole di quella del 2001, perché attualmente non vi sono squilibri strutturali in grado di causare un downturn così grave. La prossima recessione sarà probabilmente causata dal mercato del lavoro, che comincia ad essere troppo rigido: un surriscaldamento provocherebbe una riduzione dei ricavi e, di conseguenza, la sospensione da parte delle società degli investimenti e delle assunzioni. In questo modo, l’espansione finirebbe per esaurirsi. La prossima recessione, pur avendo un impatto contenuto sull’economia reale, sarà potenzialmente gravosa per i mercati finanziari, dato che le società si sono fortemente indebitate per distribuire liquidità agli azionisti tramite dividendi e riacquisti di azioni.
Nel far fronte alla prossima recessione le banche centrali disporranno di un margine di manovra più ridotto, ma ciò non significa che saranno impotenti. La politica monetaria non agisce esclusivamente sul livello dei tassi di interesse, ma piuttosto cerca di dirigere i flussi di capitale in modo da creare condizioni finanziarie espansive. Sono convinto che le banche centrali non abbiano terminato le loro munizioni. L’anno scorso diversi osservatori ritenevano che la BCE e la BoJ stessero sparando a vuoto, ma da allora i rendimenti dei Bund decennali sono scesi da circa 80 a -50 punti base, mentre quelli dei titoli di Stato giapponesi a 30 anni sono calati da circa 90 a 35 punti base. In generale, le condizioni finanziarie si sono significativamente allentate.
In conclusione, è meglio non sottovalutare mai la determinazione delle banche centrali.
Commento a cura di Nikolaj Schmidt, Chief International Economist, T. Rowe Price