L’attuale conflitto in Ucraina non può che avere un deleterio effetto stagflattivo sul contesto macroeconomico, ovvero la combinazione di crescita e inflazione è destinata a deteriorarsi a causa di minore crescita e maggiore inflazione, con danni particolari inflitti all’economia europea.
L’incertezza e i rincari energetici potrebbero rallentare il PIL dell’area euro dell’1% circa nello scenario di compromesso e far salire l’inflazione (a un anno) del 2%. Questo non significherebbe recessione, almeno per quest’anno, dato il buon tono sottostante dell’economia, a meno di non trovarci in uno scenario di tensione crescente. L’inflazione in salita potrebbe destare preoccupazione presso la Banca Centrale Europea, pronta già alla vigilia del conflitto a ritirare progressivamente gli stimoli monetari. Ciò nonostante, trattandosi in questo caso di inflazione importata, la reazione della BCE non dovrebbe essere eccessivamente intransigente.
In ogni caso, non sarebbe da escludere un intervento dell’istituto centrale a sostegno di un’eventuale spesa fiscale comunitaria. All’interno dell’ordine del giorno degli incontri di Versailles figura anche la possibilità di una sorta di “whatever it takes” fiscale dell’eurozona, volto a sostenere la spesa militare e tesa a raggiungere l’indipendenza energetica (investendo nelle energie pulite in primo luogo) anche attraverso l’emissione di Eurobond. Qualora questo progetto fiscale diventasse realtà, la BCE sarebbe verosimilmente chiamata ad acquistare tali emissioni, finanziando la spesa della regione. Ben diverso il caso degli USA, colpiti solo indirettamente dalla crisi e forti di una ‘neutralità’ economica rispetto a produzione e utilizzo di risorse energetiche. Anche per questo, la Fed ha già lasciato intendere di voler inaugurare la normalizzazione dei tassi di interesse a marzo secondo copione, con 25pb attesi di aumento del Fed Fund Rate. Contemporaneamente, sui mercati finanziari, l’incertezza vissuta nelle ultime settimane ha portato gli investitori a richiedere premi di rischio maggiori, sospingendo in alto gli Earnings Yield (l’inverso del rapporto Prezzi/Utili, la cui risalita implica quindi una contrazione dei multipli azionari). Tuttavia, le previsioni di un consistente rallentamento economico hanno causato una nuova discesa dei tassi reali che ha così assorbito parte della richiesta di maggiori premi di rischio (dati dalla differenza tra Earnings Yield e Bond Yield, misurati in questo caso dai tassi reali) e limitato le perdite sui mercati azionari.
Questo è particolarmente vero in area euro, dove la correzione dei prezzi è stata maggiore e la discesa dei tassi di interessi reali più accentuata. Da inizio anno, il quadro delle valutazioni è quindi migliorato, con una discesa dei multipli azionari prossima ai quindici punti percentuali per i principali indici (alcune aree sono state ancora più
penalizzate). Le azioni americane scambiano su multipli inferiori alle venti volte, mentre le azioni europee ed emergenti hanno un P/E ratio pari a dodici volte gli utili.
Ovviamente, queste riflessioni devono essere accompagnate da considerazioni relative alla dinamica degli utili: il consenso degli analisti prevede una crescita vicina al 10% per USA, emergenti e area euro. Dato lo scenario descritto, però, come può essere rivista la traiettoria dei profitti aziendali? Schematicamente, ogni punto percentuale di riduzione
della crescita economica si traduce in cinque punti percentuali di minore crescita degli utili. Per l’area euro, i nostri economisti stimano che la combinazione tra effetto diretto ed indiretto dello shock da materie prime possa fare rallentare di circa un punto percentuale l’attività economica. Questo non tiene conto dell’eventuale deterioramento del clima di fiducia di imprese e consumatori di fronte allo scenario bellico. Non è impossibile immaginare quindi un rallentamento più marcato: se il calo della fiducia dovesse propagarsi per un ammontare pari allo shock energetico (-1%), avremmo un’attività economica in riduzione di due punti percentuali e una crescita degli utili di fatto nulla (il -2% di crescita economica moltiplicato per 5 volte avrebbe un impatto riduttivo del 10% della crescita degli utili, pari alla stima attuale). Se questo dovesse verificarsi, mancano quindi ancora all’appello le revisioni negative degli utili, soprattutto in Europa, l’area in cui il peggioramento economico è più probabile e i margini aziendali sono più a rischio visto l’andamento dei prezzi alla produzione.
Quanto descritto rappresenta un’ipotesi molto negativa ma non così inverosimile, tant’è che il mercato, con le perdite delle ultime settimane, ha in buona parte incorporato una probabilità generosa che si possa verificare. In tal senso, una parte considerevole del danno a economia e profitti è già nei prezzi. In definitiva, da qui in avanti, le performance azionarie dipenderanno in larga misura dall’evoluzione dello scenario geopolitico, non potendo più contare sul cuscinetto dei rendimenti (reali). Nello scenario di compromesso ci sono buoni spazi di recupero. Tra i pochi strumenti (indiretti) di protezione di cui l’investitore europeo può disporre, ci sembra ancora il dollaro USA il più indicato a fronte della prevedibile volatilità di notizie e mercati. Solo negli scenari peggiori (tail risk), tornerebbero interessanti i Treasuries o una riduzione (in ulteriore sottopeso) dell’azionario USA.
Commento a cura di Andrea Delitala, Head of Euro Multi Asset e Marco Piersimoni, Senior Investment Manager di Pictet Asset Management