Le imprese sono sempre più consapevoli del rapporto tra cambiamento climatico e rischio finanziario, ma l’Italia è ancora indietro
Da un lato siccità e desertificazione. Dall’altro inondazioni e tempeste sempre più frequenti e violente. I cambiamenti climatici comportano rischi sempre più gravi per gli ecosistemi e gli uomini. Ma anche per l’economia, le imprese e gli investitori. Perché tenere in portafoglio aziende che inquinano può avere effetti catastrofici. Come scrive al proposito Sara Silano di Morningstar, «non si tratta solo di misurare l’impronta di carbonio (carbon footprint), ma di calcolare i rischi derivanti dalla transizione verso un’economia pulita e mettersi al riparo da essi». Dal punto di vista finanziario, la parola-chiave è carbon risk, , ovvero «il rischio per il valore economico di un’impresa derivante dal passaggio a un sistema produttivo a basse emissioni di CO2». Il cambiamento climatico può ripercuotersi sugli asset fisici di un’impresa, sul modello di business e sulla reputazione per effetto dell’evoluzione normativa, della maggior sensibilità dei consumatori e della comunità finanziaria verso queste tematiche. Il settore energetico è quello a più alto rischio, seguito da utilities, materiali di base e industriali, ma anche gli altri non ne sono completamente esenti. Morningstar ha mappato il carbon risk a livello globale, utilizzando i propri indici geografici e, continua Silano, «ha notato come l’Europa occidentale sia tra le zone meglio posizionate da questo punto di vista, con l’Italia che rappresenta un’eccezione, collocandosi “solo” nel terzo quintile. A sorpresa, gli Stati Uniti hanno un carbon risk basso, nonostante siano il secondo più grande inquinatore al mondo. La ragione principale è il peso significativo dei titoli tecnologici e farmaceutici nel paniere (36%), che sono tra i meno rischiosi; mentre l’energia è poco rappresentata (circa il 5%). Per contro, la Russia, con il 60% della capitalizzazione in quest’ultimo settore, è la regione con il più alto pericolo».
La transizione verso un’economia green, comunque, è tracciata. E sempre più imprese intraprenderanno azioni per gestirla e non finire ai margini del sistema. Al riguardo Carbonsink, società di consulenza specializzata nello sviluppo di strategie di mitigazione del cambiamento climatico e nella compensazione delle emissioni di CO2, ha realizzato un report, «La percezione del rischio climatico delle società quotate al Ftse Mib», per fornire agli investitori uno strumento che consenta di valutare il più obiettivamente possibile la qualità della rendicontazione finanziaria dei rischi legati al clima da parte delle imprese quotate sulla borsa italiana. Lo studio si è basato sulla analisi di alcuni indicatori quantitativi e qualitativi, riportati nei report di sostenibilità e in altra documentazione pubblica, a copertura di cinque aree di disclosure: governance, strategia, rischi climatici, metriche e obiettivi, e advocacy. È emerso in particolare, come nell’analisi di materialità (che valuta i temi prioritari per gli stakeholder) il cambiamento climatico sia considerato un elemento rilevante per i tre quarti delle imprese del campione e come, nell’accountability, ben il 57% delle società abbia dichiarato obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra. Inoltre quasi il 60% delle imprese ha scelto di mettere in campo politiche di adattamento al clima, a dimostrazione della crescente consapevolezza delle grandi imprese sul tema. Quello intrapreso dalle aziende però, si legge nel report, «è un percorso articolato e ancora lungo». Ciò è dimostrato dalle evidenze sull’analisi dei rischi, sull’attivazione di strumenti come il carbon pricing interno o sull’inserimento nella valutazione di metriche e obiettivi di indicatori legati al cambiamento climatico. A ciò si aggiunge il fatto che sono ancora poche le imprese che hanno fissato i science-based targets e che ricorrono ai green bond per finanziare le proprie azioni improntate alla sostenibilità.
Commento a cura di Nino Gavioli