Paolo Proli, head of retail distribution, nel nuovo numero di Asset Management spiega come in un anno nero per i mercati la Sgr sia riuscita a consolidarsi e crescere in Italia. E per il 2019 dice che sarà decisiva la gestione del rischio. Servirà molto giudizio, diversificazione, liquidità e una pianificazione di lungo termine.
L’intervista esclusiva a Paolo Proli tratta dal numero di gennaio/febbraio 2019 di Asset Management.
Era da più di un secolo che non si vedeva un anno così nero. Con i mercati tutti allineati nella stessa direzione: verso il basso. Eppure per Amundi Sgr, il 2018 è stato l’anno dell’incorporazione di Pioneer Investments Sgr e del consolidamento in Italia. Con risultati in netta controtendenza rispetto alla performance complessiva dell’industria del risparmio gestito. Paolo Proli, 43 anni, dal 2002 in Amundi (che allora si chiamava Crédit Agricole Asset Management), oggi a capo della divisione retail e membro del consiglio di amministrazione, traccia un primo bilancio dell’anno appena archiviato. E prevede che il 2019 sarà vissuto all’insegna della gestione del rischio e alla ricerca della conservazione del capitale.
Negli ultimi mesi del 2018 si sono manifestati i primi segni di rallentamento del più lungo rally della storia. E alla fine, l’anno si è chiuso con tutte le principali asset class in rosso. Come lo avete affrontato?
Paolo Proli. È stato davvero un anno difficile. Era dal 1901 che non si registrava un rendimento negativo per oltre il 90% delle asset class, tutte correlate nella stessa direzione. Il mese di dicembre, poi, è stato particolarmente duro, con una perdita complessiva molto violenta. Del credito ma anche dell’azionario globale e anche di quello Usa. È stato difficile frenare le perdite attraverso la diversificazione, soprattutto per gli investitori in euro, visto che una delle pochissime asset class positive è stato il dollaro.
E invece come è andata per Amundi?
Paolo Proli. Noi non ricorderemo il 2018 come un anno negativo, anzi. Abbiamo registrato una crescita di 6,2 miliardi di raccolta netta sul mercato italiano, un risultato impressionante se si considera che il dato complessivo dell’industria, dichiarato da Assogestioni, è di 7,3 miliardi. Vuol dire che abbiamo contribuito per l’85%. Amundi è cresciuta grazie al consolidamento del proprio ruolo con l’acquisizione di Pioneer e l’inizio dell’attività congiunta. Non solo: secondo i dati Assoreti, l’anno scorso le gestioni patrimoniali, che sono uno strumento molto importante di diversificazione, sono entrate in difficoltà e in Italia si sono persi quasi 4 miliardi. Noi, invece, grazie all’innovazione di prodotto, siamo andati in senso contrario e abbiamo raccolto quasi 2 miliardi su questi strumenti. E altri 2 miliardi li abbiamo raccolti su prodotti di risparmio gestito incentrati su due delle tematiche che in futuro credo saranno sempre più importanti: la sostenibilità e i megatrend. Ecco perché oggi i nostri partner di riferimento sono praticamente tutti i principali attori del mercato, Unicredit e Credit Agricole ovviamente, ma anche le realtà terze, che trovano in Amundi un partner privilegiato, leader del risparmio gestito europeo, per dimensioni ma anche per contenuti, intesi come prodotti e servizi.
Brexit, rallentamento dell’economia cinese, guerre commerciali e correnti nazionaliste in Europa. Cosa dobbiamo aspettarci nei prossimi mesi?
Paolo Proli. Il 2019 si è aperto con l’attenzione rivolta alla capital preservation e alla gestione del rischio. Ovunque, sia sul mercato istituzionale sia su quello retail. Vero è che gennaio ci ha portato, grazie a un minirally, a recuperare quello che si era perso a dicembre. C’è stato un ritorno soprattutto sui mercati emergenti, grazie alla politica meno restrittiva della Fed (l’apertura di Jerome Powell su «possibili aggiustamenti futuri» ha fatto pensare al mercato che l’aggiustamento potrebbe anche essere al ribasso). Anche il dollaro, giunto a un punto di normalizzazione, è un segnale di allentamento che ha permesso finalmente agli emergenti di respirare. Buone notizie sono arrivate anche dall’Europa, dove dopo tre trimestri consecutivi negativi l’azionario ha finalmente cambiato segno: speriamo che il trend si concretizzi durante il resto del 2019.
Quali sono le strategie da preferire in questa fase?
Paolo Proli. Arriviamo da un percorso di crescita lungo quasi 10 anni, bisognerà stare attenti all’impostazione dei portafogli. Amundi in questo momento va avanti in un’ottica di ricerca del rendimento con un atteggiamento cauto, improntato alla flessibilità e alla gestione della volatilità che comunque prevediamo continuerà a rimanere sul mercato. Quest’anno dobbiamo ragionare su problematiche significative come la Brexit, che potrebbe diventare hard se non si trovano soluzioni sulla gestione del confine tra Irlanda e Irlanda del Nord. C’è già stato un attentato dinamitardo a Londonderry a fine gennaio e spero non sia l’inizio di un’escalation dopo il trentennio che per fortuna ci siamo messi alle spalle. E poi ci sono le elezioni europee a maggio e, il 31 ottobre, la fine della presidenza di Mario Draghi alla Bce, e con novembre il cambio della governance.
E ancora: la guerra commerciale Cina-Usa. Tutti questi scenari, che non sono semplici da analizzare, ci fanno dire che bisogna utilizzare molto giudizio. E anche un po’ di liquidità, che può essere importante, nelle fasi di maggior drawdown, cioè di maggior perdita nel breve, per difendere il portafoglio ma anche per essere pronti a entrare a prezzi di sconto quando ci sia l’occasione. Val la pena ricordare che il rendimento atteso medio complessivo nel 2019 sarà la metà di quello degli anni scorsi, con l’azionario globale che può rendere intorno al 6-7% e l’obbligazionario internazionale circa il 2%. Se combiniamo un portafoglio bilanciato l’obiettivo di rendimento per un cliente non può essere dunque superiore al 3,5%, anzi stanno aumentando i rischi e sarà difficile raggiungerlo.
Concludendo, se nel 2019 dobbiamo rimanere esposti ai rischi per ottenere performance positive, perché comunque il tasso d’interesse nell’area euro è zero e quindi non abbiamo nessuna fonte risk free per poter battere l’inflazione e far crescere il nostro potere d’acquisto, è importante farlo con flessibilità, sapendo proteggere il capitale nelle fasi di grande volatilità con una maggiore diversificazione: e si può pensare anche all’oro e alle valute forti, come lo yen e il dollaro, per raggiungere l’obiettivo.
Parliamo di aree geografiche. Secondo un sondaggio realizzato dal Centro Studi Le Fonti, i consulenti finanziari e i private banker intervistati vedono nei mercati emergenti un driver fondamentale per gli investimenti (ben il 69,84%). Bisogna però essere in grado di selezionare i Paesi in modo attento. Lei cosa ne pensa e quali sono le aree che Amundi vede come opportunità?
Paolo Proli. Il mercato emergente va certamente maneggiato con attenzione, non è tutto uguale. Da quando, come detto, Powell ha cambiato la dialettica, stanno tornando flussi sia sull’azionario sia sull’obbligazionario emergente. E dopo le prese di beneficio seguite alla crescita degli anni precedenti, ora c’è un riequilibrio del portafoglio complessivo. Paesi che hanno una forte domanda interna e spingono sull’automazione dello sviluppo, come Indonesia, India, Cile e Perù, sono interessanti da monitorare e tenere nel portafoglio. E poi c’è la Cina: certo non cresce più agli stessi ritmi del passato, ma comunque di oltre il 6% all’anno e negli ultimi cinque ha raddoppiato il suo Gdp. E si può ancora permettere di fare manovre fiscali per stimolare la crescita interna, e punta a rendere il renminbi una valuta internazionale importante. Non solo: stanno per arrivare i primi ingressi negli indici internazionali delle emissioni domestiche cinesi, basti pensare a Bloomberg che a fine aprile farà entrare queste emissioni nel suo Bloomberg Barclays Global Aggregate Index.
In generale a noi piace tutta la tematica della Silk road nel mercato emergente: la nuova Via della seta crediamo possa generare un virtuosismo di rendimenti o quantomeno offrire il premio per il rischio. In questa fase ci troviamo in un mercato obbligazionario internazionale carissimo, il Bund che rende lo 0,17% a dieci anni non può certo essere una soluzione di rendimento a scadenza, al massimo un’ipotesi di copertura di portafoglio. Di conseguenza la ricerca di rendimento obbligazionario va riposizionata in un orizzonte internazionale. Naturalmente, evitando quei paesi dove conflitti e debolezza relativa sono nefasti, come la Turchia o il Sudafrica. Ma quest’anno si può sicuramente puntare maggiormente sulle local currency e selezionare anche fondi emergenti denominati in valuta locale.
Sempre dal sondaggio, risulta che fondi azionari, tematici e multiasset traineranno la raccolta. È d’accordo?
Paolo Proli. I fondi multi-asset sono da tempo strumenti centrali nella consulenza cosiddetta core. Che si tratti di fondi di fondi, gestioni patrimoniali, unit linked, multiramo o ramo III, aiutano molto a fare diversificazione di portafoglio e a non rimanere investiti in una singola scommessa finanziaria. Per quanto riguarda l’equity tematico (ma anche quello sostenibile) credo sia essenziale metterlo al centro di una corretta pianificazione di lungo termine. «Never fight change», mi piace dire: non bisogna combattere il cambiamento. Come si diceva «never fight the Fed», per sottolineare l’impossibilità di contrastare le banche centrali e la loro capacità di determinare la direzione dei mercati, così in un’economia che si evolve, bisogna assecondare il cambiamento. Tra le tematiche più importanti, c’è sicuramente quella sugli stili di consumo: la popolazione mondiale è in aumento esponenziale, nel 2050 saremo oltre 9,7 miliardi sul pianeta, e crescerà soprattutto la classe media nel mondo asiatico, mentre nel Vecchio continente invecchia anche la popolazione e manca il ricambio generazionale. L’innovazione tecnologica sta rivoluzionando i modelli e le politiche commerciali dell’old economy. Oggi quasi tutto è industria 4.0, aziende come Amazon in poco tempo mettono in crisi modelli storici come Walmart.
E questo avviene in tutti i settori: non prenderne atto, non fare selezione in questo senso sulle aziende su cui investire a lungo termine sarebbe un grave errore. I millennial, che oggi sono già il 30% della forza lavoro in Usa, hanno abitudini e stili di vita molto diversi rispetto ai baby boomer; la distribuzione è digitale, online. Tutto sta cambiando. E per questo in Amundi abbiamo una società di gestione, Cpr Am, specializzata nell’aiutarci a identificare e selezionare le aziende che seguono questi grandi trend. Insieme abbiamo appena lanciato in Italia il primo fondo azionario sull’istruzione: è un mercato che vale 5mila miliardi di dollari e che raddoppierà da qui al 2030. Non solo la scolarizzazione è in crescita nel mondo meno sviluppato, ma anche molto più vicino a noi, nelle nostre aziende servirà una nuova formazione. Siamo già obsoleti rispetto ai nostri modelli di business attuali: il 54% di chi è impiegato dovrà affrontare percorsi di aggiornamento per mantenere il livello di salario e restare al passo con i nuovi modelli di business.
Amundi è tra le società che può vantare una gamma di prodotti completa. Negli anni passati si è assistito a una fortissima crescita degli Etf e la vostra società si è distinta anche per questo strumento. Quali sono i margini di crescita e di miglioramento per questo strumento?
Paolo Proli. Nel 2018 Amundi è stato il terzo provider in Italia di Etf e speriamo di continuare a crescere. Gli Etf sono uno strumento di ottimizzazione, comodo ad esempio per coprire mercati di riferimento specifici in maniera comunque diversificata. Sono strumenti semplici da usare per un gestore professionale. Il loro successo deriva dall’utilizzo all’interno dei portafogli modello: servono per essere più rapidi nell’esecuzione, anche nella parte statica dei portafogli, visto che si posso scambiare su base giornaliera. E permettono di generare alpha gestionale a basso costo selezionando alcuni fattori rispetto ad altri.
Ad aprile si terrà il Salone del risparmio. Tema principale di questa edizione, gli investimenti Esg. Una tematica su cui c’è una grande attenzione e di cui si parla molto. Amundi fra l’altro ha da poco adottato un piano d’azione che prevede l’analisi ambiente, sociale, e di governance integrata in tutti i fondi entro tre anni. Insomma, sembra che voi non la consideriate una moda, bensì un megatrend che segnerà il futuro degli investimenti…Paolo Proli. Oggi Amundi ha strumenti d’investimento Esg per 280 miliardi di euro e nel prossimo triennio, come ha annunciato il nostro global ceo, Yves Perrier, intendiamo raddoppiarli. Ci siamo impegnati ad affiancare a ogni portfolio manager i nostri analisti Esg per gestire ogni singola asset class includendo la responsabilità come motore di performance. Da oltre 30 anni la sostenibilità è un nostro fiore all’occhiello. Siamo stati tra i primi a firmare i Pri (Principles for responsible investment) lanciati dall’Onu nel 2006; tra le prime società a firmare la Portfolio Decarbonization Coalition promossa da Ban Ki-moon nel 2014, l’impegno alla decarbonizzazione degli investimenti; insomma, siamo sempre stati sulla frontiera.
Produciamo da anni un report sul nostro contributo come investitori per quanto riguarda il miglioramento della sostenibilità di lungo termine. Abbiamo pubblicato alla fine del 2018 un’importante ricerca che dimostra come prima del 2014 i tre criteri Esg non fossero ancora in grado di generare performance assolute rispetto a un indice di riferimento, mentre a partire dal 2014 i dati ci dicono il contrario. Anche per questo Amundi intende applicare alla lettera e in maniera strutturata il principio di sostenibilità.
La Mifid 2 è in vigore ormai da un anno, e agli investitori stanno per arrivare i primi rendiconti sui costi sostenuti. C’è chi paventa il rischio che i 3mila miliardi fermi sui conti correnti restino parcheggiati lì oppure che ci si fermi su soluzioni a basso costo, basso rischio e basso rendimento. Qual è il suo giudizio?
Paolo Proli. Lo scopo della Mifid 2 era ed è quello di aumentare la trasparenza e aiutare i clienti a ragionare su portafoglio, prodotto e patrimonio a 360°, non solo a tracciarne il profilo di rischio. Non si può pensare che un anno sia sufficiente, è un percorso lungo. Era importante mettere dei capisaldi che spingessero l’industria a lavorare sulla governance, sulla costruzione e selezione d’investimento, sul target market, sulla collaborazione nella catena del valore tra produttore e distributore, cosa che aumenta per definizione la qualità del portafoglio e della consulenza finale erogata all’investitore. Aiutare i clienti a fare scelte d’investimento più consapevoli è importante anche per spostare quei 3mila miliardi di euro sui conti correnti che sono inefficienti. Sono solo un costo senza rendimento, perché nella curva di breve termine europea non ce n’è in questo momento.
È un parcheggio che non batte l’inflazione, anche se è bassa: tornare a spiegare queste cose, anche di base, al cliente è fondamentale, bisogna aumentare la trasparenza e modificare il linguaggio. Nella nostra Accademy, per esempio, abbiamo formato centinaia di professionisti, con corsi specifici, roadshow, percorsi di finanza comportamentale e non solo, insistendo soprattutto sul cambio di linguaggio, perché i consulenti devono capire e sapersi adattare alle caratteristiche di ogni cliente. Non sono tutti uguali e non è solo il loro profilo di rischio a definirli: c’è chi è più razionale e chi più idealista, chi è intraprendente e chi si considera guardiano… Se siamo tutti d’accordo che la professionalità e la qualità della consulenza vadano pagate, allora questa qualità deve anche essere percepita dal cliente. In conclusione direi che l’industria non deve aver paura della Mifid 2, ma deve interpretarla come un’ulteriore spinta verso la qualità.
A cura di Paolo Tomasini