L’industria globale della moda è in pieno boom. Negli ultimi 15 anni, la produzione mondiale di abiti è quasi raddoppiata, con oltre 300 milioni di persone impiegate lungo la relativa catena del valore. Tuttavia, questa crescita è arrivata a un significativo costo per l’ambiente.
La consapevolezza di questo eccessivo impatto ambientale, e sociale, sta crescendo. Il tema della sostenibilità, per un’industria globale che vale oggi 1,3 trillioni di dollari, è sempre di più sotto l’occhio dei riflettori. Il sottoutilizzo dei capi d’abbigliamento e il processo lineare con cui questi vengono creati evidenziano la necessità di rivedere il sistema, rendendolo più circolare e sostenibile.
“Stiamo assistendo ad un cambio di paradigma” sostiene David Sheasby, Head of Stewardship and ESG di Martin Currie, affiliata Legg Mason. “Per anni l’industria della moda è andata a caccia di modalità più economiche per produrre abiti destinati ad un’obsolescenza sempre più rapida. Ma un cambiamento potrebbe essere in arrivo, con il focus che potrebbe spostarsi dalla scalabilità alla sostenibilità.”
L’avvento del “fast fashion”, per cui nuove collezioni vengono disegnate, prodotte e vendute a ritmi sempre più veloci, ha portato a una drastica riduzione del numero di volte in cui un capo viene indossato prima di essere gettato via. Globalmente, i tassi di utilizzo sono diminuiti negli ultimi 15 anni del 36%, con alcuni capi d’abbigliamento che vengono indossati solo 7 volte prima di essere scartati. Si stima che circa la metà del vestiario venga gettata entro un anno dall’acquisto. Si tratta di un’enorme perdita in termini di valore economico, e i costi esterni della gestione di questi rifiuti – tramite smaltimento in discarica o incenerimento – stanno diventando significativi.
Il modello “usa e getta” dell’industria della moda sta esercitando una seria pressione su alcune risorse naturali non rinnovabili. I processi della manifattura tessile, che richiedono un consumo idrico notevole, utilizzano 93 miliardi di metri cubi d’acqua ogni anno. Il processo di colorazione dei tessuti è uno dei principali inquinatori di acqua potabile al mondo. E le emissioni annuali di gas serra dell’industria della moda sono maggiori di quelle prodotte insieme da tutti i voli e i trasporti marittimi internazionali.
Da un punto di vista sociale, le condizioni di lavoro nella catena di produzione degli indumenti sono state per lungo tempo mediocri, con salari bassi, ambienti di lavoro pericolosi e, spesso, l’utilizzo di lavoro minorile. Tuttavia, stanno emergendo segnali di una maggior consapevolezza da parte dei consumatori, che potrebbe avere – insieme a nuovi accordi per standard di sostenibilità più elevati – un impatto tangibile sulle aziende di moda.
“Come investitori con un orizzonte di lungo termine” spiega Sheasby “analizziamo con attenzione la sostenibilità delle imprese coinvolte, o correlate, con l’industria della moda.
Cerchiamo di capire il loro approccio verso il consumo di risorse e le problematiche lavorative relative al ciclo di vita di un prodotto. In particolare, ci focalizziamo sugli aspetti chiave della creazione di valore a lungo termine di un’azienda.”
In questo senso, Patagonia – società di abbigliamento sportivo non quotata in borsa – è stata per molti anni un esempio evidente di un’azienda di moda in cui il business è allineato con le priorità ambientali e sociali. Ha sviluppato infatti materiali riciclati e organici, creato prodotti durevoli, donato almeno l’1% dei ricavi a gruppi ambientalisti e promosso iniziative di giustizia sociale per i suoi dipendenti. Come risultato, l’azienda ha potuto beneficiare dell’evoluzione dei criteri di acquisto dei consumatori e ha costruito una sorprendente fedeltà al proprio brand.
“Come mostrato da Patagonia e altri leader della sostenibilità” continua David Sheasby “grandi opportunità attendono quelle aziende in grado di trovare modalità di produzione più efficienti o di sviluppare nuove fibre con minori esternalità ambientali. Le società che investono in adattamenti “circolari” nella produzione – come il riciclo meccanico e chimico, o una maggior durabilità del prodotto finale – possono intercettare nuove aree di mercato. Il trend verso una maggior circolarità sta coinvolgendo un numero crescente di produttori, con molti marchi leader che stanno già dando vita a schemi di recupero dei vestiti usati.”
Sheasby sottolinea anche il percorso compiuto dalla multinazionale svedese Hennes & Mauritz AB (H&M): “Non ne possediamo quote, ma H&M è un buon esempio dell’importanza che stanno assumendo i principali criteri ESG a cui guardiamo nell’analizzare un’azienda. H&M è stata infatti oggetto di diverse critiche per alcune sue attività, come il presunto incenerimento dei prodotti non venduti, ma ha mostrato una crescente attenzione verso la questione della riusabilità. Il suo Garment Collecting Program incoraggia il riciclo in negozio dei capi d’abbigliamento, e nel sito della società è presente un’area dedicata alla sostenibilità, con consigli per prolungare la vita di indumenti e accessori.”
Cambiamenti come questi sono segno di un’evoluzione culturale che sta attraversando il mondo della moda, con i principi ESG che stanno diventando parte integrante del business model di molte aziende.
Analisi a cura di David Sheasby, Head of Stewardship and ESG di Martin Currie, affiliata del gruppo Legg Mason