Stiamo vivendo un anno da “tempesta perfetta” sui mercati. Si sta osservando un ciclo economico del tutto anomalo, reso tale da una serie di shock esogeni causati prima dalla pandemia e in seguito dalla guerra in Ucraina. Il risultato è stata una sorpresa continua nei dati macroeconomici. La minore crescita non ha evitato all’inflazione di continuare ad aumentare, determinando un contesto di stagflazione. Nulla di questo ciclo ha a che fare con quanto già osservato in passato e ha come genesi il rapporto tra domanda e offerta aggregate. Entrambe, infatti, sono collassate all’inizio della pandemia. La prima, però, grazie al sostegno della politica monetaria e fiscale delle banche centrali (soprattutto negli USA) e in seguito alle riaperture, si è ripresa molto rapidamente, culminando con l’attuale boom dei servizi. La seconda, invece, non ha avuto una risposta altrettanto elastica, generando un rallentamento della crescita con alla base i colli di bottiglia sulle catene di fornitura. Va da sé che, una domanda più forte esercitata su beni scarsi, si è trasformata inevitabilmente nell’escalation dei prezzi.
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America ed Europa alle prese con lo shock stagflattivo
Sia America che Europa sono alle prese con uno scenario fortemente inflattivo. Negli USA, al contrario che nel Vecchio Continente, la crescita dei prezzi non è però una questione esclusivamente energetica. Per quanto riguarda Washington, la ripartenza della domanda dopo il covid è stata anche sostenuta dalle grandi elargizioni del Piano Biden. L’incapacità dell’offerta di adeguarsi alla ripresa della domanda ha peggiorato i colli di bottiglia sia nella produzione (ad esempio, in Cina con la politica della ‘tolleranza zero-COVID’) sia nella distribuzione (ad esempio, marittima). Anche se vi sono segnali di distensione nei prezzi dei noli e nei tempi di attesa per la consegna delle merci, sappiamo che è in atto una lenta traslazione dell’inflazione dai beni ai servizi. Non possiamo perciò ancora dire con certezza se gli effetti base che stanno sostenendo l’inflazione cesseranno nei prossimi trimestri, come sembra plausibile. Per far sì che questo accada è comunque necessario che l’offerta si adegui alla domanda. L’incontro tra le due può avvenire o al livello della domanda, se l’offerta recupera il terreno perduto post-pandemia (goldilocks), o al livello dell’offerta, se le banche centrali rallentano la domanda (recessione), o a un livello intermedio (soft-landing).
L’aggressività delle Banche Centrali e i 3 scenari possibili
Le Banche Centrali hanno deciso di rompere ogni indugio. Di fronte a un’inflazione a due cifre, infatti, la normalizzazione della dinamica dei prezzi ha assunto la priorità assoluta. La Federal Reserve, seguita dalla Banca centrale europea, ha deciso di alzare in modo sostenuto i tassi d’interesse, a costo di provocare una recessione la cui probabilità è di conseguenza aumentata, anche se ciò non rappresenta lo scenario più probabile almeno per gli USA.
L’economia, infatti, si è mostrata resiliente anche in Europa all’indomani dello scoppio della guerra in Ucraina, che si temeva avere ripercussioni peggiori sulla crescita. Considerando lo scenario base ritenuto al momento il più probabile, ovvero quello di soft-landing, il picco per l’inflazione americana sarebbe già stato raggiunto ed è previsto un dato del 7% a fine anno per arrivare a una stima del 3,3-3,4% a fine 2023. Per l’Europa, invece, è prevista un nuovo massimo attorno al 10% entro fine anno, per arrivare allo stesso livello dell’America al termine dell’anno successivo. Qualcuno potrebbe pensare a una previsione rosea, ma di fatto non ne abbiamo certezza, perché, considerando il ciclo anomalo, anche il percorso dell’inflazione è difficilmente prevedibile. In ogni caso, se la crescita dei prezzi si arrestasse subito, riteniamo che l’economia avrebbe le risorse per ripartire spedita, poiché non è convalescente come nelle crisi del passato, ma soffre di un rallentamento ‘artificiale’, indotto dalle banche centrali per curare il male dell’inflazione.
C’è tuttavia la possibilità di uno scenario peggiore, quello di hard-landing, determinato dal perdurare di un’inflazione alta. In questo caso le banche centrali continuerebbero a restringere i cordoni della politica monetaria in modo aggressivo.
Come già osservato ci sono buone possibilità che il peggio sia alle spalle e l’inflazione inizi a ripiegare. Ci vorrà comunque un po’ di tempo affinché le buone notizie registrate negli stadi iniziali di formazione dell’inflazione si riversino sui prezzi al consumo. Se poi ci sarà una virata verso un mondo de-globalizzato dovremo iniziare a tenere conto di nuove equazioni, e rivedere le previsioni, ma il modo in cui attualmente si formano i prezzi non è cambiato in modo sostanziale.
Potrebbe, tuttavia, esserci un effetto secondario capace di rendere più persistente l’inflazione. Le rivendicazioni salariali, infatti, provocano inflazione futura. Il mercato del lavoro, fortemente colpito dalla pandemia, ha visto un tasso di partecipazione (Forza Lavoro in proporzione della Popolazione in età lavorativa) che, anche dopo le riaperture, non è rimbalzato al livello pre-COVID. Molte persone che hanno lasciato il lavoro hanno deciso di non tornare a cercarlo. Forse i generosi sussidi hanno avuto l’effetto, soprattutto nelle fasce più giovani, di ritardare il rientro al lavoro. Al momento negli Stati Uniti c’è un ampio gap tra domanda e offerta di lavoro che ha innescato una dinamica salariale sostenuta. La situazione, tuttavia, non è sfuggita di mano: la crescita dei salari, al momento, è intorno al 5% e i salari reali sono quindi in calo. Questa dinamica va tenuta sotto osservazione perché un riallineamento tra i due termini (prezzi e salari) è doveroso, pena il rischio di tensioni sociali, ma sarebbe meglio questo avvenisse attraverso un calo dell’inflazione. Inoltre, una miglior dinamica della produttività favorirebbe l’aggiustamento rendendolo meno frizionale e più sostenibile e consentirebbe che il recupero di potere d’acquisto dei lavoratori non i ripercuota negativamente sulla redditività aziendale.
Verso una recessione tecnica, ma non profonda
A fronte di tutto questo, ci sono diversi dati che giocano a favore di un’ipotesi di recessione tecnica e non profonda. Il motivo, come già accennato, è chequesta è una recessione indotta e non provocata da una degenerazione endogena del ciclo economico. Le finanze private (così come la salute dei bilanci aziendali) non rilevano situazioni critiche né eccessi da smaltire, fattori questi che rendono le recessioni più lunghe e difficili. In assenza di inflazione, infatti, la salute finanziaria di famiglie e imprese americane è buona.
In merito alle probabilità di recessione l’analisi offre risposte ambigue: molti indicatori, soprattutto quelli ‘di mercato’, sono a un livello cui solitamente, nel giro di sei mesi, è seguita una recessione. Se questa però arriverà e/o sarà profonda, molto dipenderà dal comportamento della Federal Reserve che, almeno in questo momento, sta rivelando carenze di visibilità e nella comunicazione. A Jackson Hole, appena un anno fa, l’orientamento era più attendista nei confronti dell’inflazione. Questo ha provocato un eccesso di stimoli e un’inflazione da domanda, un errore di policy a cui la Fed ora sta cercando di rimediare, rischiando però di accanirsi contro l’economia. Qualche segnale che i prezzi stanno rallentando, comunque, c’è e la speranza è che ciò sia sufficiente a evitare ulteriori forti rialzi dei tassi d’interesse e quindi una recessione più profonda.
Il rischio di un errore di policy delle Banche Centrali
In termini di velocità, stiamo assistendo a un restringimento della politica monetaria tra i più frettolosi della storia economica. La politica monetaria però potrebbe rivelarsi lo strumento imperfetto per questa crisi, perché agisce sulla domanda e non sull’offerta. A sua volta, il tightening, solitamente, si sprigiona sulla domanda con 12-18 mesi di ritardo. Il rischio, quindi, è di non vedere ancora gli effetti dei rialzi dei tassi già apportati e di iniziare ad accorgersene solo quando la stretta sarà già stata eccessiva. Non è infatti noto quanto rallentamento all’economia sia già stato indotto: non aspettare che si esplichino i risultati e proseguire in modo aggressivo, potrebbe tradursi in un nuovo errore di politica monetaria. Anche per questo, la Fed ha dichiarato di voler rallentare il ritmo dei rialzi pur senza escludere che si arrivi al 5% sui fed funds (sopra il ‘terminal rate’ indicato in precedenza) e vi si resti più a lungo di quanto presagito. Questo anche perché Powell teme maggiormente il rischio di fare troppo poco.
A fianco della manovra sui tassi va poi ricordato che la Fed sta anche ritirando liquidità tramite il QT. Su questo fronte al momento non vediamo criticità ma, verso giugno del prossimo anno, potrebbero farsi sentire i morsi sul credito. Ecco la ragione per cui riteniamo – quantomeno auspichiamo – che la stabilizzazione dell’inflazione sia condizione necessaria ma anche sufficiente per una distensione delle condizioni finanziarie.
Banche Centrali, cosa sta dietro a multipli e valutazioni azionarie
Nell’ottica di effettuare decisioni d’investimento, occorre notare che ci sono stati miglioramenti della valutazione sia degli asset azionari che di quelli obbligazionari. In particolare, c’è stata una rivalutazione delle obbligazioni, con la curva dei tassi reali sopra lo zero su tutte le scadenze. Per quanto riguarda l’azionario, bisogna sottolineare che le valutazioni dipendono da numerose variabili. Molte di queste hanno una relazione instabile con i rapporti valutativi; quella più stabile e significativa di tutte è l’inflazione. Su questo punto ci sono però opinioni diverse tra gli analisti: c’è chi pensa che per abbatterla ci sia bisogno di una recessione, altri credono si dovrà passare da una lunga stagnazione, ma c’è anche chi ritiene che l’inflazione possa tornare a un livello più basso velocemente. Infatti, se veramente non si è sedimentata nel sistema, le prospettive per le valutazioni azionarie potrebbero non essere così negative.
Azionario, preoccupazioni sulle stime troppo elevate
Al momento, la preoccupazione più consistente è sulla previsione degli utili aziendali. Le stime non incorporano ancora nessun rallentamento degli utili per il 2022, 2023 e 2024. Questo è particolarmente vero in Europa e Stati Uniti, dove le stime forward a 12 mesi sono comprese fra il 5 e il 7%, di certo non coerenti con uno scenario di rallentamento o addirittura di hard-landing. Negli USA, le nostre stime di crescita vedono ancora rischi di una possibile caduta degli utili 2022, mentre restano sostenute per l’Europa e il Giappone, avvantaggiate dal cambio contro dollaro favorevole all’export.
Negli Stati Uniti c’è inoltre un evidente problema sui margini di cui gli analisti finora non hanno tenuto conto in modo significativo, soprattutto se i salari nominali dovessero continuare a crescere a un tasso del 5% o poco inferiore. La crescita delle vendite realizzata sta diminuendo e le aziende stanno perdendo capacità di aumentare i prezzi. Va da sé che le sorprese negative saranno tanto più ampie quanto più le aspettative sugli utili non terranno conto dell’erosione dei margini e dell’aumento dei costi della produzione, ossia salari e materie prime.
Riteniamo che gli utili europei e giapponesi, tuttavia, siano meno soggetti a sorprese negative. In particolare, il Giappone è l’unico Paese al mondo insieme alla Cina a non soffrire dell’inflazione, e a beneficiare ancora di una politica monetaria espansiva. L’Europa, invece, ha un premio per il rischio fin troppo alto, motivato dalla situazione geopolitica in atto. Le valutazioni del mercato growth americano, che in passato avevano raggiunto eccessi importanti, ora sono rientrate nelle medie di lungo periodo.
Asset allocation: obbligazioni interessanti, azioni da selezionare
Sui tre scenari ipotizzati incombe la lettura dei dati macroeconomici e del contesto che viviamo: maggiore la vischiosità dell’inflazione, maggiore l’aggressività delle banche centrali. in uno scenario di goldilocks, ossia crescita al potenziale ed inflazione in discesa, le banche centrali non avrebbero bisogno di intervenire più del necessario. In questo caso, sulle obbligazioni per gli investitori sarebbe lecito pensare di ottenere il rendimento corrente, ma senza immaginarsi una grande riduzione dei tassi d’interesse per cui nessun guadagno in conto capitale; molto buono invece lo scenario per le azioni.
In uno scenario di hard-landing, in cui l’inflazione rimane elevata, le banche centrali sarebbero ancora più nervose. Sulle obbligazioni, soprattutto a breve termine, ci sarebbero perdite ancora considerevoli, mentre sulle azioni si abbatterebbe la recessione, con utili in ritirata del 15-20%.
Infine, se pensiamo a uno scenario di soft-landing, al momento quello più accreditato, per noi il mercato obbligazionario potrebbe fornire una protezione molto evidente, con tassi di interesse reali al limite della zona restrittiva, ben al di sopra dello zero per tutte le scadenze. Sulle obbligazioni, non più ostaggio delle banche centrali, ci sarebbe la possibilità di ottenere non solo un carry, ma anche un guadagno in conto capitale. Se si volge lo sguardo alle azioni, sarebbe difficile ottenere qualcosa di più del rendimento da utili, attualmente al 5,5% negli USA. Certamente, alcune aree faranno meglio di altre, tra cui possibilmente gli emergenti, ma occorrerà lavorare sulle scelte di secondo livello. In questo momento, quindi, vediamo opportunità d’investimento principalmente sui mercati obbligazionari governativi e, in particolare, sulla parte lunga della curva americana.
Rimane quindi ancora aperta la partita sulla costruzione di portafoglio: il vero punto di domanda sulla costruzione del nostro portafoglio è capire se le banche centrali cesseranno o meno di usare le obbligazioni per inasprire la politica monetaria e contenere l’inflazione: nel recente passato ci hanno sempre sorpreso per la loro incrementale aggressività, ma ormai ulteriori restrizioni condurrebbero a uno scenario che il mercato potrebbe giudicare recessivo, con discesa dei rendimenti a lungo e ripristino delle correlazioni.
A cura di Jon Mawby, Co-Head of Absolute & Total Return Credit di Pictet Asset Management