Il rafforzamento del dollaro statunitense dura ormai da 11 anni e questo è il ciclo di rafforzamento di questa valuta più lungo mai verificatosi. Negli ultimi 15 mesi, il rafforzamento del dollaro USA ha accelerato. Da maggio 2021, il nominal broad US dollar index — che misura il valore ponderato per il trade del dollaro USA rispetto ad altre valute delle economie emergenti o avanzate — è cresciuto del 10%. Si tratta dell’avanzamento maggiore dal 2014-2016 e ha portato l’indice al suo livello più alto dal 2002. Rettificato tenendo conto delle differenze dei tassi inflazionistici nazionali, anche il valore ponderato per il trade del dollaro USA è aumentato fortemente nell’ultimo anno, proseguendo una tendenza che era già in corso da oltre un decennio. In termini di inflazione (reale) rettificata, il dollaro USA ora ha un valore superiore del 30% quasi rispetto ai livelli del 2010.
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A cosa è dovuto il rafforzamento del dollaro?
Anche se molti dei commenti più recenti riguardanti il rafforzamento del dollaro USA si concentrano sulle differenze nella politica monetaria — per esempio, la Federal Reserve (Fed) ha alzato i tassi più rapidamente e più spesso quest’anno rispetto alla Banca Centrale Europea —, il lungo periodo di rafforzamento del dollaro USA nel corso dell’ultimo decennio suggerisce che anche altri fattori hanno contribuito notevolmente. Le tendenze a lungo termine dei tassi di cambio riflettono di norma differenze persistenti nei tassi di crescita economica e nei rendimenti del capitale. Negli ultimi 15 anni, dall’inizio della crisi finanziaria globale, l’economia statunitense è cresciuta più velocemente, in media, degli altri principali paesi sviluppati. Una crescita più veloce tende ad attirare capitali dall’estero in cerca di rendimenti maggiori. Molto di questo denaro è entrato sui mercati azionari statunitensi, che dal 2009 hanno ottenuto continue sovraperformance rispetto sia ai mercati sviluppati sia a quelli emergenti.
Anche i differenziali dei tassi di interesse hanno favorito il dollaro USA; perfino durante il prolungato periodo di tassi di interesse bassi e di allentamento quantitativo che ha fatto seguito alla crisi finanziaria globale. Mentre la Fed ha ridotto drasticamente i tassi di interesse dopo il 2008, l’Europa e il Giappone sono andati perfino oltre, portando i tassi e i rendimenti obbligazionari in territorio negativo.
I differenziali dei tassi di interesse si sono ampliati in direzione del dollaro USA, rafforzandolo ancora di più nel 2022. Infine, il dollaro USA ha beneficiato anche della sua posizione come “petro-valuta”.
Diversamente dall’eurozona, dal Giappone o perfino dalla Cina, che dipendono pesantemente dalle importazioni di energia, gli Stati Uniti sono diventati energicamente autosufficienti in questo secolo.
L’impatto dell’aumento dei prezzi del petrolio sul deficit commerciale è decisamente migliorato negli Stati Uniti perché il Paese si basa meno sui prodotti importati, diversamente da molti mercati emergenti che continuano a dipendere dalle importazioni. Anche gli sconvolgimenti globali dei mercati dell’energia causati dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia hanno avuto un impatto netto positivo sul valore esterno del dollaro USA. Se prendiamo in considerazione i fattori che hanno rafforzato il dollaro USA negli ultimi anni, è difficile pensare che possano svanire presto. Il prolungamento della guerra tra Russia e Ucraina (che ora sembra arrivata a un punto morto), il persistere dell’inflazione statunitense sopra l’obiettivo stabilito che spinge la Fed a decidere ulteriori rialzi di prezzi e pochi segnali che le altre economie si comporteranno meglio durante il rallentamento economico globale ormai inevitabile sono tutti fattori che suggeriscono che il dollaro si manterrà forte.
Cosa succede alla crescita, all’inflazione e alla politica?
Per gli Stati Uniti, il rafforzamento del dollaro rende le esportazioni più costose e le importazioni meno costose. Questo è uno dei motivi per cui il disavanzo delle partite correnti negli Stati Uniti — l’indicatore più ampio che misura le esportazioni meno le importazioni, inclusi beni e servizi — ha iniziato a deteriorarsi nuovamente dal 2019. Un aumento del deficit commerciale, da parte sua, rallenta la crescita del prodotto interno lordo (PIL) negli Stati Uniti. Contemporaneamente, l’indebolimento dell’euro, dello yen, della sterlina o del renminbi aumenta la competitività delle altre economie principali, sostenendo la loro attività economica. Tuttavia, l’impatto degli andamenti delle valute sugli indicatori più ampi della crescita, come il PIL, può essere facilmente sovrastimato. Per le economie più grandi, come gli Stati Uniti, l’eurozona nel suo complesso, il Giappone o la Cina, il commercio internazionale rappresenta di norma meno di un quinto del prodotto totale. L’80% circa delle loro economie si basa infatti su attività nazionali. Di conseguenza, un dollaro USA forte, da solo, probabilmente non è in grado di peggiorare in modo significativo le previsioni sulla crescita negli Stati Uniti. E nemmeno un renminbi, un euro o uno yen deboli, da soli, possono far ripartire le economie della Cina, dell’Europa o del Giappone.
Per ragioni simili, gli andamenti delle valute sono di norma un “errore di arrotondamento” per quanto riguarda l’inflazione nelle economie maggiori. I cambiamenti dei prezzi delle importazioni, inclusa la produzione intermedia, non appaiono con decisione negli indici dei prezzi al consumo finali. In realtà, per aziende e privati già in difficoltà a causa dell’aumento dei prezzi dell’energia, l’incremento dei costi per l’importazione di petrolio o gas in euro o yen è un ulteriore colpo. Dall’altra parte, per le economie più piccole e abbastanza aperte al commercio, la debolezza della propria valuta può contribuire notevolmente ad aumentare l’inflazione nazionale. Questo fatto riguarda in particolare le economie emergenti che dipendono di più dalle importazioni di energia le cui valute si sono indebolite rispetto al dollaro USA. Inoltre, in un mondo in cui praticamente ogni economia, sviluppata o emergente, si scontra con un’inflazione troppo elevata, un dollaro USA forte tende a dare una svolta restrittiva alla politica monetaria. Questo perché l’aumento dell’impatto sull’inflazione della debolezza delle valute fuori dagli Stati Uniti obbliga le altre banche centrali a rialzi ancora maggiori di quelli che deciderebbero altrimenti. In altre parole, per gli investitori la prima implicazione importante della forza del dollaro USA non è che ridistribuisce la crescita dagli Stati Uniti al resto del mondo, ma piuttosto che porta a un incremento della stretta monetaria nel resto del mondo. Per esempio, in Europa, nonostante le prospettive di una crescita lenta, la banca centrale ha aumentato i tassi di interesse per combattere l’inflazione elevata. Un dollaro USA forte, quindi, presenta un rischio maggiore per la crescita globale.
In che modo i mercati dei capitali ne sono interessati?
Passando ai mercati dei capitali, un dollaro costantemente forte influirà sui flussi di capitali transfrontalieri, sulla forma delle curve dei rendimenti, sul costo del capitale e sulla ridistribuzione dei profitti.
Ognuno di questi elementi può avere effetti importanti sui rendimenti per classe di asset, settore e stile di investimento. Anche se una crescita relativa e rendimenti più forti hanno portato a un rafforzamento del dollaro USA negli ultimi anni, il risultato è anche uno spostamento delle valutazioni relative, in particolare quando rettificate per il potere d’acquisto nazionale. Non soltanto il mercato azionario statunitense negozia a un rapporto prezzo-utile superiore rispetto alle controparti nell’eurozona o in Giappone, ma l’acquisto di azioni di società statunitensi da parte di investitori europei o giapponesi è diventato più costoso nella loro valuta nazionale (più debole). Poiché nessun albero nella foresta cresce per sempre, anche sui mercati di capitali, a un certo punto, gli investitori orientati al valore inizieranno a cercare opportunità di investimento più allettanti. Secondo noi, la fine della forza del dollaro statunitense probabilmente coinciderà con un rinnovato interesse per gli asset non espressi in dollari. Poiché un dollaro USA forte tende a dare una svolta restrittiva alla politica monetaria globale, altri risultati probabili saranno l’appiattimento o l’inversione della curva dei rendimenti mano a mano che i mercati scontano l’aumento dei tassi decisi dalla politica e un indebolimento della crescita futura. Per gli investitori azionari questa di norma è una situazione poco propizia per gli stili di investimento ciclici o value e più adatta a investimenti di qualità o growth. Per gli investitori in titoli a reddito fisso, ciò può portare a opportunità uniche relative alla duration. La forza del dollaro USA, dovuta tra l’altro all’elevata inflazione statunitense e alla stretta aggressiva della Fed, tenderà anche ad aumentare la volatilità dei mercati, sia a livello di valute che di altre classi di asset.
Questo è semplicemente ciò che accade durante i principali momenti di svolta ciclici. In quella situazione, ampi andamenti valutari possono aumentare i premi al rischio, portando a un incremento del costo del capitale e a un indebolimento della spesa e degli investimenti aziendali, causando così una riduzione degli utili e delle valutazioni. Anche gli investitori esteri si troverebbero ad affrontare ulteriori costi di copertura valutaria. Infine, un dollaro forte tende a ridistribuire i profitti societari, in particolare per gli indici azionari con capitalizzazione più elevata. Per esempio, circa un terzo dei profitti societari totali di S&P 500 vengono dall’estero e sono espressi in altre valute. Se il dollaro USA si rafforza, le multinazionali statunitensi trasformeranno questi utili espressi in euro, yen o renminbi in meno dollari, riducendo così la redditività. Nel frattempo, in Europa, Giappone e resto del mondo accade il contrario: le multinazionali pubblicano profitti in valuta locale migliori grazie all’impatto positivo dei profitti in dollari USA trasformati in euro o yen.
Che cosa significa il rafforzamento del dollaro?
Quindi, cosa possiamo concludere da quanto detto in precedenza? Innanzitutto, le ragioni dietro l’impressionante rafforzamento del dollaro USA nel 2022 e negli anni precedenti non sembrano avere molte possibilità di sparire presto. Gli investitori, i decisori politici e i cittadini comuni probabilmente dovranno convivere ancora a lungo con un dollaro forte. In secondo luogo, un dollaro USA forte probabilmente avrà un impatto asimmetrico sulla crescita globale considerato il suo impatto sulla politica monetaria. La crescita globale probabilmente sarà più debole a causa della forza del dollaro USA. In terzo luogo, il recente apprezzamento del dollaro USA è stato rapido e ha contribuito alla maggiore volatilità dei mercati dei capitali e delle valute. Momenti di svolta ciclici come quello che stiamo vivendo adesso tendono ad aumentare i premi al rischio e, di conseguenza, a deprimere le valutazioni. In quarto luogo, nel medio termine, un dollaro USA forte tenderà a tenere a freno l’inflazione e la crescita statunitense, facendo aumentare invece l’inflazione e la crescita del resto del mondo. Questi esiti opposti alla fine porteranno a un restringimento del gap tra i risultati attesi dagli interventi di politica monetaria in tutto il mondo.
Analogamente, i differenziali dei tassi di interesse che hanno rafforzato il dollaro USA quest’anno potrebbero presto raggiungere il punto più alto e fornire il massimo sostegno al dollaro USA. Infine, un dollaro USA forte rende gli asset statunitensi costosi rispetto agli asset esteri, spingendo a un’inversione dei flussi di capitali transfrontalieri. Lo stesso discorso vale per la redditività: la forza del dollaro USA tende a ridurre la redditività delle aziende statunitensi rispetto a quelle estere, portando a una riallocazione dei capitali e dei flussi di capitali che, alla fine, indeboliranno il dollaro USA.
A cura di Stephen Dover, Chief Market Strategist e Head of Franklin Templeton Institute.