Le tensioni sul mercato del lavoro nei Paesi sviluppati non richiamano la stagflazione, anzi, l’attuale contesto di “ricostruzione” è invece più vicino alla reflazione.
Il contesto economico attuale caratterizzato da un’impennata dei prezzi delle materie prime, inflazione elevata e forti incertezze geopolitiche ricorda gli anni ’70 e, di conseguenza, fa presagire la minaccia della stagflazione. Questo situazione non presenta però tutte le classiche caratteristiche tipiche della stagflazione caratterizzata da alta inflazione, bassa crescita e, soprattutto, alta disoccupazione. Le tensioni sul mercato del lavoro nei Paesi sviluppati non richiamano la stagflazione, anzi, l’attuale contesto di “ricostruzione” è invece più vicino alla reflazione.
Le tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina, il Covid e la guerra in Ucraina hanno portato in Europa una duplice consapevolezza: la necessità di investire per accelerare la transizione ambientale e la necessità di accelerare l’indipendenza strategica (nei settori della difesa, del digitale, della salute, dell’energia e dell’alimentazione). Per l’Europa, valutiamo le necessità di investimenti aggiuntivi a circa il 3% del Pil all’anno per dieci anni: 2% per la transizione ambientale, 0,5% per il digitale, 0,4% per la difesa e 0,3% per la sicurezza energetica. Sapendo che l’occupazione è complementare agli investimenti, ciò significa che sarà fondamentale sviluppare il capitale umano. Questo slancio negli investimenti pubblici e privati permette persino di considerare la piena occupazione come una prospettiva possibile, invalidando la minaccia della stagflazione.
Una duplice scarsità di manodopera
Oltre a sostenere la crescita e l’occupazione, questo periodo di cambiamento del modello economico è effettivamente inflazionistico. In effetti, l’impulso all’investimento nelle economie sviluppate è così grande che normalmente si scontra con la scarsità di risorse, siano esse capitale fisico, umano o finanziario: l’adeguamento dei modelli economici richiede risorse di materie prime che non esistono in quantità sufficiente. Le aziende si trovano ad affrontare una duplice scarsità di manodopera. Da un lato, il vincolo demografico riduce la disponibilità di capitale umano, dall’altro la necessità di transizione richiede nuove competenze non ancora disponibili. Le risposte politiche riguarderanno sia la formazione che l’immigrazione di manodopera.
Se il tasso di investimento dovesse aumentare senza un adeguamento dei consumi e quindi del risparmio, si avrebbero tensioni sul mercato delle risorse finanziarie, che si rifletterebbero in un ulteriore aumento dei tassi di interesse reali. Un impulso del 3% sul tasso di investimento senza correggere il risparmio porterebbe alla fine a un ulteriore aumento dei tassi di interesse “di equilibrio” di circa 250 punti base, parametrato al Bund.
Cambiamento di paradigma nella politica monetaria
L’inflazione è duratura e resterà anche dopo l’eventuale calo dei prezzi di petrolio e gas. Questo comporta un cambiamento di paradigma nell’atteggiamento delle banche centrali che hanno il dovere di intervenire se vi è un rischio nel circuito “prezzi-salari”. Per farlo, hanno ovviamente gli occhi puntati sulle aspettative di inflazione.
Ma al di là delle aspettative, vi è una soglia di inflazione a partire dalla quale il comportamento economico cambia: le famiglie e le imprese diventano più attente all’andamento dei prezzi e si adeguano in modo più sistematico, in particolare attraverso le richieste salariali. Abbiamo valutato questa soglia all’8%, il che significa che, alla luce degli ultimi dati sull’inflazione (+8,5% su un anno negli Stati Uniti e +8,9% nella zona euro), il comportamento è destinato a cambiare.
Questo cambiamento di paradigma si riflette in tre modi. In primo luogo, le banche centrali non possono più mantenere una forward guidance, ossia fornire prospettive di politica monetaria con grande visibilità. Diventando nuovamente “dipendenti dai dati”, alimenterebbero l’incertezza e quindi la volatilità delle curve dei rendimenti. In secondo luogo, facendo tesoro dell’esperienza monetaria degli anni ’80, le banche centrali non abbasseranno il loro tasso di riferimento in caso di recessione per non riaccendere le aspettative di inflazione, anche se questa scelta è costosa per la crescita nel breve termine. Infine, la put delle banche centrali in caso di correzione dei mercati finanziari non è più automatica. Le recenti dichiarazioni dei banchieri centrali mostrano che il miglioramento delle condizioni finanziarie di quest’estate non è stato percepito positivamente. In altre parole, le banche centrali potrebbero anche augurarsi una correzione dei prezzi degli asset di rischio.
Le banche centrali, pertanto, intensificheranno la stretta monetaria sia attraverso aumenti dei tassi, ancora sottostimati dai mercati, sia accelerando la riduzione dei propri bilanci.
Recessione in vista
La nuova situazione modifica profondamente la metodologia utilizzata per elaborare uno scenario economico. Finora era consuetudine partire dalle prospettive economiche, poi guardare all’inflazione e, infine, alle implicazioni per la politica monetaria. Oggi questo ordine deve essere ripensato: in primo luogo, è necessario estendere l’orizzonte presentando le prospettive di crescita a lungo termine per capire ciò che questo comporta per il regime di inflazione e la reazione delle banche centrali. Da qui si possono dedurre le prospettive economiche. Da questo punto di vista, le economie sviluppate devono affrontare due avversità. In primo luogo, l’aumento dei prezzi delle materie prime causerà una recessione industriale globale a fine anno. In secondo luogo, le economie sviluppate dovranno digerire l’aumento dei tassi d’interesse e l’assorbimento della liquidità, che saranno sicuramente un test per l’economia reale. Poiché l’economia statunitense è la più avanti nella normalizzazione monetaria, sarà la prima a risentirne.
Infine, per i prossimi 18 mesi le economie sviluppate dovranno affrontare una recessione che darà l’impressione di una stagflazione. I programmi di investimento e le esigenze di manodopera consentono però di ipotizzare una ” fuga dall’alto “, con una auspicata e auspicabile normalizzazione dei tassi di interesse.
Commento a cura di Christophe Morel, capo economista di Groupama AM